La Francigena
dei Pellegrini

 

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La Via Francigena

Discorsi Francigeni

 

La Confraternita di S.Jacopo di Compostella

Queste pagine del sito nascono per raccontare di storie vicine e lontane della VF. Storie dei luoghi raccolte sulla Via.

Racconti e studi per orientarsi meglio, per conoscere di più la storia e la traccia lasciata dalla Via.

Chiunque può contribuirvi con scritti che parlano di passato o di presente, di monumenti o di persone, di curiosità o di eventi che hanno lasciato il segno.


- Monginevro, passo chiave [di Monica D'Atti]

- Canterbury e la Via Francigena: ma che "c'azzecca"? [di Monica D'Atti]

- La fantasia di Carlo Magno [di Monica D'Atti]

- Una storia che non finisce … anzi, che qui comincia [di Monica D'Atti]




 

Monginevre, passo chiave
[di Monica D'Atti]

Santiago, Roma, Gerusalemme: andare e tornare dall'ovest all'est della cristianità, lungo il cammino lasciatoci in eredità dai pellegrini che ci hanno preceduto. E in mezzo la Via Francigena e il passo del Monginevro.

La Via Francigena è la via che veniva dalla Francia come il nome stesso racconta. Le diramazioni di tale via in prossimità dei confini sono molteplici in virtù dei luoghi di provenienza o di destinazione dei pellegrini che vi transitavano. Il tratto della Via Francigena che, a 1854 m. di quota, valicava il Passo del Monginevro, permetteva il passaggio dalla Francia all'Italia già in epoca romana (il Moncenisio che passava a quota più alta a 2084 m. cominciò ad essere molto utilizzato in epoca altomedioevale).
Era la via più diretta e nota per arrivare dal sud della Francia e utilizzata quindi da tutti i pellegrini che provenivano da Santiago di Compostella o verso esso andavano. Da qui i pellegrini scendevano a Oulx e arrivavano a Susa, confluendo nell'altro ramo della Francigena proveniente dal Moncenisio.
Si proseguiva per Bussoleno, che nel Medioevo era borgo fortificato e poi Avigliana dove i monaci dell'Abbazia di Novalesa (al Moncenisio) avevano fondato un grande ospedale.
La strada del Monginevro usata nel medioevo per i pellegrinaggi verso Roma e la Terra Santa era già in epoca romana una delle principali arterie transeuropee, importante sia per i traffici civili che militari e attraversava la terra francese portando fino ai Pirenei. Era nota come Via Dominzia. Scavi recenti hanno trovato il livello del passaggio della strada romana con le vestigia antiche che si trovavano tra 1,50 e 2 m di profondità.
Dall'alto delle Alpi si scendeva nella valle della Durance e del Rodano per poi arrivare in Spagna.

Citata già da Tacito, Ammiano Marcellino, Polibio. Utilizzata da Cesare per andare a conquistare le Gallie. Definita dall'amministrazione dell'Impero Romano che costruì numerose Stationes per i viaggiatori permettendo la nascita di: Mons Janus (Claviere), Scingomagus (Cesana), Statio ad Martis (Oulx), Excingomagus (Exilles). Descritta nell'Itinerarium Hierosolymitanum (o Burdigalense) intorno al 333 d.c. che elencava le principali località della strada tra Bordeaux e Gerusalemme e disegnata nella Tabula Peutingeriana.
A partire dall'Alto Impero, un piccolo agglomerato è installato sul colle: è chiamata Druantium o Summae Alpes (la cima delle Alpi) o Alpis Cottia (Alpi Cozie, dal nome del re Cottius, contemporaneo di Augusto, che governava sul territorio). Comportava, oltre ai luoghi di accoglienza per i viaggiatori, un santuario dedicato alle sorgenti della Durance e della Dora - da cui il nome Druantium - divinità protettrici, ma anche a Giove, dio delle cime onorato su quasi tutti i grandi colli alpini.
Un'interessante descrizione storica dei luoghi attraversati si può trovare sul sito

http://www.viadomitia.org/france/index.php3?langue=it&id_gmenu=789

da cui è stata tratta anche la cartina riprodotta in queste pagine.
Il flusso di viandanti e pellegrini si mantenne elevato nel corso dei secoli e varie testimonianze lungo la via, come cappelle dedicate a S. Giacomo, confermano l'utilizzo del percorso da parte dei pellegrini conpostellani.
Attualmente grazie all'opera dell'Associazione francese des Amis de Saint Jacques en Provence-Alpes-Côte d'azur-Corse la cura e la riscoperta della Via Domizia come percorso di pellegrinaggio è una realtà che si sta consolidando.

Per maggiori informazioni si invita a visitare il sito dell'Associazione

http://www.compostelle-paca-corse.info/

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Canterbury e la Via Francigena: ma che "c'azzecca"?
[di Monica D'Atti]

Un "senso" alla storia

"Bentornato eccellenza! Come è andato il suo pellegrinaggio sulla Via Francigena?". "Via Francigena, cos'è la Via Francigena? Io torno adesso da Roma, non capisco di cosa parli!".
Questo potrebbe essere il surrealistico dialogo che si potrebbe generare oggi, per strabismo storico, tra un inglese contemporaneo nostro e Sigerico vescovo intorno al 950.

La Via Francigena, quella via che veniva dalla Francia e che Sigerico mai pensò di percorrere e non pensò di aprire. Quella Via che ora abili operazioni di marketing "politically correct" attribuiscono nella paternità allo stesso Sigerico. Su un diario ritrovato, di un vescovo che se ne tornava a casa da Roma, per strabismo storico è stata costruita una storia che, amplificata da siti internet e da giornali passa e ripassa alimentando il luogo comune e l'ignoranza.
Dalla news letter n.2 del 2004 del Centro Studi Romei di Firenze del Prof. Renato Stopani presentiamo questa analisi che condividiamo pienamente.

LA DIMENSIONE INTERNAZIONALE DELLE VIA FRANCIGENA Newsl/002

Esigenze di politica culturale comunitaria hanno spinto a considerare "via Francigena" anche il percorso dal canale della Manica alle Alpi che, per ragioni oggettive, non può definirsi tale. Questioni di semplice logica: se il termine Francigena significa letteralmente "strada generata in Francia" non è concepibile che un uomo del medioevo considerasse tale una strada che attraversa la Francia stessa. Come non si definirebbe "via Romana" una via che si svolgesse per l'interno di Roma.
La dimensione internazionale della Via Francigena è data da altri fattori, non dal nome e, passate le Alpi, neppure dalla unicità dei percorsi.
Oltre tutto, l'individuazione della città di Canterbury come "capolinea" della strada fa torto ad altre località assai più sensatamente da considerare come "capi-linea": quali ad esempio, Utrecht, che fungeva da punto di convergenza dei pellegrini che provenivano dal mare del Nord.
Si rileva anche l'assurdità di privilegiare il percorso francese, rispetto a quello della valle del Reno, che era percorso da gran parte dei pellegrini dell'area scandinava e germanica, specialmente prima delle invasioni normanne e dopo il XII secolo.
Il percorso che fa capo a Canterbury diviene importante dopo l'uccisione dell'arcivescovo di Canterbury, Thomas Becket, il 27 dicembre 1170, da parte di un gruppo di scherani del re, Enrico il Plantageneta. Il rapido diffondersi del culto per Becket in tutta Europa, nato per l'efferatezza del
crimine, ma anche per la diffusione da parte dei monaci dell'acqua miracolosa di san Thomas, ottenuta dall'immersione delle vesti insanguinate dell'arcivescovo in barili d'acqua, poi distribuita in fiale metalliche ai pellegrini, fece sì che anche Canterbury, dalla fine del secolo XII, divenisse un luogo di attrazione per il pellegrinaggio.
Tutto ciò sommandosi al percorso dell'arcivescovo Sigeric, di due secoli anteriore, ma non indicativo, perché Sigeric se ne stava soltanto tornando al suo soglio arcivescovile dopo una visita istituzionale al soglio pontificio, ha reso impropriamente e immeritatamente Canterbury il presunto capolinea unico della strada che ci interessa.
Anche su questo argomento è in corso di stampa il volume contenente gli Atti del Seminario di Firenze del maggio 2004 dal titolo "Dall'Italia a Canterbury. Culto e pellegrinaggio per Thomas Becket". (RenatoStopani & Fabrizio Vanni)

Che altro aggiungere? Buon pellegrinaggio a tutti, non importa su quale strada siate, basta che comunque lo sappiate e per strabismo non vi perdiate.
Ultreya

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La fantasia di Carlo Magno: il Sentiero dei Franchi, storia di uno sguardo oltre l'ostacolo
[di Monica D'Atti]


Siamo nella Valle di Susa, in quel tratto di Via che scendendo dalla Francia porta verso Torino e la pianura padana. Sono le porte dell'Italia che in tanti, condottieri, viandanti, mercanti e pellegrini percorsero e che furono celebrate e ricordate da tanti scrittori. Di qui la storia è passata molte volte ma un passaggio in particolare vogliamo adesso ricordare, e raccontare come la fantasia aprì una nuova strada. E ci affascina sì la nuova strada, ma come per tutte le cose, ci affascina di più la fantasia dell'uomo. È la storia del percorso noto come Sentiero dei Franchi "inventato" da Carlo Magno per aggirare i Longobardi che erano arroccati alle Chiuse di S.Michele. È un percorso in quota che il re franco pensò fosse possibile trovare e, aiutato dalla persone giuste, trovò.
Carlo Magno era entrato in Italia dal Passo del Moncenisio e si era fermato con le sue truppe nei pressi della Abbazia di Novalesa, all'inizio della piana di Susa. Per proseguire doveva affrontare l'esercito longobardo che si era attestato alla Chiuse di S. Michele, 20 km più avanti, nel punto più stretto della valle, nel luogo migliore per la difesa. I longobardi erano tranquilli. Da lì non poteva passare uno spillo e non c'erano altre strade, o almeno così pensavano, perché nessuno aveva mai pensato diversamente.
Dal così detto balcone di Novalesa Carlo Magno guardava lontano il profilo della Sacra di S. Michele così come anche noi oggi possiamo vederla, e immaginava un'altra strada. Cercava, pensava a un'altra strada, ad un'altra soluzione. Come ogni grande condottiero e grande uomo credeva che non ci fosse un'unica via e fossero possibili soluzioni alternative e geniali.
Guardare oltre l'orizzonte e sognare, immaginare le vie che questo orizzonte racchiude e dischiude. In ogni uomo c'è una scintilla che permette il salto oltre il finito, che permette di superare quello che appare per andare oltre, verso infiniti traguardi. Carlo Magno era un condottiero; aveva terre e regni da conquistare. Ma non era dissimile, nella sua natura umana, da altri, da tutti quei viandanti dell'infinito che cercano altre terre, che cercano la Terra Promessa e verso di essa vanno, percorrendo strade che a volte si perdono o sembrano non esserci, ma che con fantasia e amore trovano.


Dal balcone di Novalesa guardando
verso le Chiuse e la Sacra di S. Michele


Dalla penna di Gianni Granzotto e dalla sua biografia su Carlo Magno prendiamo questo brano che descrive in modo bellissimo l'impresa.


Da Carlo Magno di Gianni Granzotto, Mondadori Editore, 1978 - MI

"Adesso la storia di Carlo prende la strada d'Italia, la via delle Alpi che egli varca per la prima volta nella sua vita. Ci ritroviamo con lui al punto di partenza della nostra storia, poco lontani dal valico dove vent'anni prima incontrammo il Papa che andava a chiedere aiuto alla spada dei Franchi. Ora è Carlo che dal settentrione scende verso Roma per rispettare finalmente quei patti e liberare l'Italia dal giogo longobardo. Muove con un esercito, in un tempo più propizio delle bufere e dei ghiacci affrontati dall'inerme vicario di Cristo nel suo viaggio memorabile. È la fine d'agosto del 773. Carlo passa le Alpi dal Moncenisio e al termine della traversata, appena affacciato alle valli italiane, si ferma per riordinare le sue forze alla Novalesa, che era allora la stazione di tappa di tutti i transiti alpini tra le Gallie e il Po.
I monaci benedettini che alla Novalesa tengono ancora oggi l'abbazia come la occupavano all'epoca del viaggio di Carlo, quasi in maniera di favola mi raccontano che in quei tempi tutto intorno alla chiesa si stipavano migliaia di muli, in stalle e recinti, per il trasporto dei viandanti e dei loro carichi. Le vie del monte non erano strade ma sentieri, disagevoli e impervi. Alla Novalesa si affittavano le bestie e le guide. E si trovavano i rifornimenti per gli uomini e per gli animali.
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Il disegno di Pipino ora era diventato il suo disegno, con l'arricchimento della giovinezza, di una audacia più lucida e risoluta, aperta alle novità che si schiudevano davanti a lui come l'immagine dell'Italia dal balcone della Novalesa. Era un proposito ormai fermo, in più ingagliardito dai vigori della fede. La cristianità dei Franchi usciva dalle remote oscurità dei riti barbari come il sole dalle nebbie. Essi si sentivano portatori giovani ed incorrotti di una bandiera eterna, garantita da Dio, più saldi degli altri popoli non ancora convertiti alla verità e più degni di coloro che non avevano la forza di difenderla o addirittura la tradivano, i Romani imbelli e i Longobardi usurpatori. La ricerca della vittoria diventava un compito di giustizia. E la protezione divina, suprema aspirazione di ogni monarchia, avrebbe reso inviolabile la corona che Carlo portava sul suo capo da così breve tempo, ma con il proposito di farla risplendere nel mondo come la vetta più alta del potere.
La Novalesa era una soglia tra queste speranze e la realtà, prima della corsa ignota nella quale Carlo stava per gettarsi. Doveva scegliere attentamente il tempo e il modo; e stava scrutando di lassù tutti i segni per scoprire la strada propizia. Nel travaglio dell'attesa gli erano vicino il vecchio abate del monastero, un nobile franco di nome Frodoino. Era stato grande amico di Pipino, fedelissimo alla regia famiglia. Conosceva Carlo dagli anni dell'infanzia e ne era diventato ammiratore quasi fanatico, più per la sua saldezza nella religione che per il suo valore di guerriero.
Novalesa, all'imbocco della valle di Susa, era sulla frontiera tra il regno franco e il regno longobardo, tra il settentrione e il meridione dell'Europa del Medio Evo. Dei Longobardi, delle loro mosse e delle loro astuzie, alla Novalesa si sapeva tutto. Frodoino dal pianoro dell'abbazia mostrava a Carlo il profilo della valle che s'inoltra verso Susa, e di là si distende tra contrafforti di colli e montagne fino a Torino e all'ampia stesa del Po. Il fiume che la percorre è la Dora Minore, quella che chiamano Riparia, di acque cerulee come l'altra Dora cantata dal Carducci ma stretta tra due sproni scoscesi della catena alpina, sbarrata da una saracinesca di monti e strapiombi quasi fosse calata una porta impenetrabile proprio al limite della pianura, con le sue verdi e aperte libertà. Quel luogo obbligato si chiamava fin da allora claustra Itala, le chiuse d'Italia. E ne ha conservato il nome: sulla strada del Moncenisio, a pochi chilometri da Avigliana, si trova ancora oggi il borgo delle Chiuse di San Michele.
Frodoino informò Carlo che i Longobardi avevano messo mano da più di un anno a fortificare ogni palmo della strettura, erigendo torri, scavando fossati, drizzando muraglie e bastile, apprestando trabocchetti e punti d'agguato. C'era un solo ponte per attraversare la Dora a Borgone, difeso da terrapieni e presidiato a ciascuno dei due imbocchi.
Carlo si fece disegnare il tracciato di quelle difese, che Frodoino stimava insuperabili. La configurazione della valle, nel punto della sua angustia, lasciava appena un lembo di terra troppo ristretto per passare lungo la riva sinistra della Dora. Sulla destra non c'era spazio, soltanto precipizi e burroni. I Longobardi vi avevano aggiunto i loro sbarramenti murati, con le scolte in avviso su ogni strapiombo. Nessun movimento poteva sfuggire. Per Frodoino non vi era possibilità alcuna di valicare una simile barriera.
Meditabondo Carlo annuiva. Sapeva meglio di Frodoino che cosa significasse quell'ostacolo, un caso di guerra quasi insolubile e carico d'azzardo. Dubitava che potesse esistere mai un baluardo impossibile da forzare: ma il prezzo sarebbe stato troppo alto, con soverchie perdite d'uomini per una spedizione appena iniziata e già troppo lontana dalle sue basi. Inoltre vi era il rischio rappresentato dalla lentezza del tempo necessario a disimpegnarsi da quella trama, quando ormai l'autunno incombeva.
Non decise nulla per il momento. Ritenne opportuno mandare messi a Desiderio con rinnovate proposte di pace.
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Era certo che Desiderio avrebbe rifiutato, spinto dalle sue stesse irresolutezze, a scegliere questa volta la via più disperata. Carlo aveva studiato a lungo le mosse di Desiderio, le mosse dell'animo prima ancora di quelle militari. Lo sapeva accecato dall'odio per l'onta che aveva subito con il ripudio della figlia, e rafforzato dentro questa smania di vendetta dalla sicurezza dei suoi trinceramenti, preparati con tanta diligenza. Figgendo l'occhio verso gli agguati immobili e silenziosi dove Desiderio l'attendeva, a poche leghe dalla Novalesa, Carlo sentiva che il vero prigioniero di quegli argini era proprio Desiderio, chiuso nella convinzione che il suo avversario avrebbe logorato tutte le forze in un assalto impossibile. Dietro quegli spalti considerati inespugnabili i Longobardi si ritenevano al riparo da ogni sorte. La logica della difesa perfetta ha sempre tolto agli eserciti, in ogni tempo, il grande pungolo guerriero dell'imprevedibile Avveniva per i Longobardi nell'ottavo secolo, alle Chiuse di San Michele, ciò che accadde più di mille anni dopo alle armate francesi sulla celebrata linea Maginot. I sentimenti dell'uomo, le sue passioni e i suoi pregiudizi, hanno un loro cardine elementare. Non mutano con il mutare del tempo e della storia. E noi siamo, anche per tali cause, tutti contemporanei attraverso l'illusione dei secoli.
Il problema per Carlo era chiaramente questo: scavalcare la barriera di Susa con la fantasia, dato che non si poteva schiantarla con la forza. Frodoino aveva ragione e torto. Nel senso che il suo ragionamento era fin troppo rigoroso se si restava fissi con la mente alla sola alternativa dell'urto inevitabile contro le trincee di Desiderio; ma perdeva ogni vigore se si immaginava di distaccarsi da quella ostinatezza, di rinunciare allo scontro frontale per inventare altre linee di operazione.
A questi accenni di Carlo, mormorati interrogativamente come nel corso d'una congettura non ancora completa, Frodoino s'impazientiva. Batteva le dita vecchie e magre sulle carte dove aveva fatto disegnare la geografia dei luoghi, una specie di prova matematica dell'inutilità di ogni divagazione. Il solo spazio dove poter passare era la stretta striscia di terra sulla sinistra della Dora, tra alture fortificate e inassaltabili, tutta occupata dalle forze longobarde. Sulla destra del fiume non vi era possibilità fisica di transito, né sentieri né valli né spiragli di sorta che consentissero di penetrare l'aspra parete dei monti. Quali invenzioni si potevano opporre a queste leggi di natura? Per Frodoino erano fantasticherie inutili, velleità di una mente giovanile ed inesperta.
La riva destra del fiume. Tutti i pensieri di Carlo si concentravano su questa parte della vallata, descritta in modo molto impreciso e sommario nelle mappe di Frodoino, poiché si partiva dal presupposto che fosse impraticabile. Impraticabile fin dove? Allontanandosi di dieci, venti, trenta miglia dal fiume a quale punto si sarebbe trovata una via di discesa? Non era possibile che il muro di montagne continuasse all'infinito, sempre in senso orizzontale. Perché non applicarsi con più accuratezza in questa verifica?
Frodoino non era per nulla convinto, ma obbedì. I movimenti medievali, soprattutto in terreno alpestre, erano d'ampiezza assai ridotta, limitati alla tradizione e con scarse curiosità o tentazioni di deviarne. Si sapeva molto poco della configurazione dei luoghi non battuti dagli itinerari consueti. L'abate consultò i taglialegna, i pastori, i mandriani. Mandò uomini suoi a prender notizia presso altri monasteri. A poco a poco, da vaghe indicazioni dapprima, poi con una rete sempre più fitta di esplorazioni e di controlli venne prendendo sostanza tutta una serie di tracciati alternativi che riempiva il vuoto di conoscenze sull'andamento del terreno alla destra della Dora. Gli schemi approssimativi delle carte di Frodoino cominciavano a diventare su quel versante più abbondanti nei punti di riferimento, come lo erano all'inizio soltanto per le Chiuse di San Michele. Carlo fece spedire pattuglie in ricognizione, che gli dessero informazioni anche d'ordine militare sui nuovi itinerari che via via si scoprivano. C'erano difficoltà e delusioni. Altro è il passaggio, sia pure malagevole, di un viandante; e altro il transito di un esercito. Tutte queste mosse, questi reiterati tentativi, dovevano inoltre essere compiuti nel segreto più assoluto. Se appena Desiderio avesse intuito che il piano di Carlo era l'aggiramento della sua linea fortificata l'impresa sarebbe divenuta impossibile. Invece, come la storia descrive, l'audacissima avventura riuscì.
Il corso della Dora penetra nella valle di Susa piegando verso oriente. Desiderio attendeva i Franchi da quella parte. Carlo, al contrario, si buttò diritto a sud. Preceduto da guide sicure ed esperte condusse le sue schiere per sentieri che erano più da stambecchi che da uomini, lungo un itinerario che aveva negli stessi nomi dei luoghi valicati l'indicazione del suo tracciato aspro e selvaggio: il colle di Malanotte, il passo del Vento, il corso del Sangonetto e del Sangone, per fosse e dirupi che vanno ad infilarsi dentro le spaccature della montagna precipitando al piano in vista di Giaveno e di Avigliana, a qualche chilometro dalla Dora e ormai alle spalle delle torri e delle muraglie di Desiderio.
Ho dato uno sguardo a questo percorso incredibile, giù da Meano e da Bastia, alle porte di Susa. L'occhio non vi scorge che selve e voragini. L'ho guardato anche dalla parte longobarda, inerpicandomi fino al santuario di San Michele in cima al cocuzzolo del monte Pirchiriano, a picco sul punto più angusto della stretta. San Michele era un santo di devozione longobarda. Nel nome dell'arcangelo i Longobardi avevano segnato i confini estremi del loro regno italico erigendogli un tempietto sul Gargano nel sito più alto delle Puglie, al monte Sant'Angelo; e una piccola cappella qui ai limiti settentrionali, sopra Avigliana. Dallo sperone del Pirchiriano, dove la chiesa sta appollaiata come un'aquila sul nido, tenevano in vedetta tutto il profilo della valle di Susa fino all'altezza delle Chiuse. In quella direzione non sfugge un'ombra. Ma quando si accorsero dei Franchi che dilagavano dalla parte opposta era troppo tardi per riordinare un nuovo fronte di battaglia. Tra Giaveno ed Avigliana furono sbaragliati, colti dalla sorpresa e dallo sgomento.
Quel combattimento, ricordato come la battaglia delle Chiuse, suonò da campana a morto per il dominio longobardo in Italia, destinato da quel giorno a precipitare verso la fine. Splendeva sulle sue rovine, sull'occidente stremato ed informe, la stella di Carlo: fredda come gli astri che sovrastano i dedali del mondo, sicura della sua luce, distaccata ed inesorabile. Così è il chiarore della vittoria nel buio degli anni, nel buio delle coscienze. Cominciava a correre per ogni contrada la leggenda del guerriero portentoso e invincibile, il mito di Carlo Magno.
(Proprio dai fatti di Susa prendono inizio le prodigiose apparizioni che accompagneranno poi tutta la vita di Carlo nell'esaltazione dei posteri. Qui si tratta di un cervo bianchissimo, con quattro rami di corna, mandato da Dio per guidarlo attraverso gli anfratti fino alla vittoria. In altre cronache postume si attribuisce lo stratagemma della discesa alle spalle dei Longobardi a un misterioso diacono Martino, spedito a Carlo provvidenzialmente dall'arcivescovo di Ravenna per svelargli il cammino. È la versione che piacque al Manzoni nel suo Adelchi, un epicedio per il tramonto longobardo in Italia con tutta la simpatia milanese rivolta a Desiderio, a Ermengarda, ai " Lombardi " sopraffatti dalla forza barbara dei Franchi. Altre guide miracolose dell'impresa di Carlo furono adombrate in giovani pastori silenziosi improvvisamente comparsi alla Novalesa per trascinarlo ai favori della battaglia. Fu persine inventato un trombettiere longobardo che venne ad offrire il tradimento in cambio d'una investitura. Sarebbe diventato signore di San Michele, padrone d'un territorio i cui confini si spingevano fin dove poteva giungere il suono della sua tromba. Sono le fantasie del mito. L'itinerario impossibile e vittorioso fu una scelta di Carlo, un suo lucido calcolo, un atto di intelligenza e coraggio. La sua sicurezza era la sua sola protezione, senza entusiasmi e senza miracoli)".


Percorso del Sentiero dei Franchi, dalla "Guida alla Via Francigena"



Così fu. E oggi? Se scendendo dalla Francia, nel proprio cammino di pellegrino verso Roma, si vuole ritrovare la via di Carlo Magno il Sentiero dei Franchi è ancora percorribile. Attualmente ha il vantaggio di essere attrezzato per l'ospitalità con rifugi di montagna e abbastanza ben segnalato, su buoni sentieri. Lo svantaggio è l'attraversamento di zone di montagna con il rischio di trovare qualche problema in più dal punto di vista climatico. Tutto comunque dipende come sempre dalle gambe a dalla fantasia del pellegrino. Non esistono strade impossibili. Esiste solo l'incapacità di sognarle e nel sogno trovarne la soluzione.
Ultreya
Monica D'Atti

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Una storia che non finisce … anzi, che qui comincia
[di Monica D'Atti]

"…et per fossatu descendente usque in via Francisca,.." Con questo riferimento vengono delimitati da Ostriberto, preposto del monastero di S.Salvatore sull'Amiata, i confini del podere di Callemala. La citazione viene da una "carta" dell' 876 con la quale viene data a un certo Gisalprando l'autorizzazione a risiedere nel casale di proprietà dell'Abbazia ed ad utilizzare i terreni delimitati da un fosso che arrivava alla "via Francisca".
Via francisca, si parla di via francisca, via francigena. E' il testo più antico che la chiama espressamente così. Da sempre per chi si occupa di storia la prima citazione di qualcosa è importante; è quasi un atto di nascita, il primo manifestarsi. L'atto di nascita, il riconoscimento della Via Francigena: "…per fossatu descendente usque in via Francisca". Già nell'876 si sapeva che quella via veniva dalle "France" e portava viandanti e pellegrini fino a Roma e poi oltre, fino a Gerusalemme o nell'altra direzione fino a Santiago di Compostella. La strada era già viva e conosciuta e nominata.
La Via Francigena era da tempo la strada di fondovalle e chi passava, traversando quel territorio compreso fra la Val d'Orcia e la Val di Paglia, potevano fermarsi e trovare ospitalità presso i casali di Callemala o Voltole (San Pietro in Paglia) o Richoburgo. Questi nomi, agglomerati di case costituiti per lo più da capanne di contadini, ritornano spesso nella memoria scritta di chi percorse la Via per Roma dall'Alto medioevo in poi. Raccontano documenti dell'epoca che gli stessi monaci dell'Amiata tenevano una locanda presso Callemala così come ne avevano una ad Acquapendente. Per noi moderni pellegrini rimane oggi questo sfumato fascino di nomi antichi ma permane anche la realtà di un territorio da attraversare con occhi incantati. Percorrere questo tratto di Via Francigena è come fare un tuffo nel passato. Complice sicuramente la scarsa densità di popolazione, probabilmente inferiore - secondo studi storici - a quella altomedievale, ci si trova a camminare per strade deserte. Anche la stessa nuova Cassia non è particolarmente trafficata. Il pellegrino a piedi si addentra su vie secondarie percorrendo lo sterrato che porta alle Briccole, importante ospitale, luogo di sosta all'epoca regale e ora abbandonato casolare; camminando sulla vecchia Cassia arriva poi alla Stazione di Posta di Ricorsi passando a fianco di un ponte medioevale; proseguendo sul cammino di fondovalle e scavalcando un poggio si può dirigere verso i luoghi dei citati casali, ora scomparsi e sulla cui esatta ubicazione di un tempo fantasticano gli studiosi, alla stregua di moderni Schliemann. Attualmente anche la strada che passava il poggio non esiste più e il nuovo pellegrino deve affrontare il rischio di percorrere 700 metri di Cassia sotto una galleria. Si può fare, tutto si affronta ma, come gli antichi pellegrini che dopo il Mille cominciarono a salire alla novella rocca di Radicofani perché la via era più sicura e l'ospitalità certa, così anche noi possiamo deviare dal fondovalle, passare per il luogo dove si trovava il borgo di Muliermala (Cattiva Donna) localizzato nei pressi della attuali Case Le Conie e arrivare nel paese. Qui a Radicofani le testimonianze scritte di passaggio di pellegrini più o meno illustri si sprecano. Qualcuno fu anche costretto alla sosta forzata ai tempi del ben famoso Ghino di Tacco. Non è mia intenzione soffermarmi su particolari già abbondantemente ripetuti in tanti testi. Voglio solo chiudere il breve volo su questa tappa della Via Francigena con un salto di mille anni rispetto alla citazione con la quale ho aperto questo scritto, riportando un paio di brani di viaggiatori inglesi che, anche se non proprio lusinghieri e che oggi possono farci sorridere, contribuiscono a ravvivare la memoria di una strada: la Via Francigena dalla lunga storia.
Rimane per noi poi l'attesa di un presente da realizzare: la fine dei lavori all'Ospitale di S.Pietro e Giacomo a Radicofani perché il racconto possa continuare.

"... il paesaggio si cangia in colline desolate e scure che si spingono sin dove giunge l'occhio. Non sembrano esser idonee a qualche cultura e anzi sono orrende e inutili. Tale per un certo tempo appare la campagna prima di giungere (da Acquapendente) al monte di Radicofani, una terribile, nera collina a sommo della quale avremmo dovuto pernottare. E' proprio una collina altissima e difficile a salire. Ai suoi piedi restammo assai imbarazzati dal veder stramazzare uno dei poveri ronzini che ci trainavano. L'incidente costrinse un'altra carrozza che stava scendendo dal monte a fermarsi... Sulla parte più alta del monte c'è una vecchia fortezza e vicino ad essa un edificio costruito da uno dei granduchi con funzioni di casino di caccia, ma oggi mutata in locanda. Da fuori è un grande edificio, ma che interno, che stanze, che sistemazione! A1 suo confronto la tua cantina è un palazzo! Inoltre, essendo la vigilia di qualche santo, da mangiare non c'erano che uova. Divorammo il magro pasto e, dopo aver tappato le finestre con le coperte che avevamo con noi, ci sdraiammo sulla paglia completamente vestiti. Son questi gli inconvenienti di una strada che viene considerata, per così dire, la più importante arteria del mondo intero." (Thomas Gray, poeta inglese, aprile 1740).

"Quando lasciammo (Montepulciano) era una brutta mattinata e per dodici miglia procedemmo su una campagna sterile, petrosa e selvaggia come la Cornovaglia in Inghilterra, sinché giungemmo a Radicofani, dove c'è una locanda spettrale, fatta per i folletti; un tempo era stato un casino di caccia dei Granduchi di Toscana. E' talmente un succedersi di anditi storti e di nude stamberghe, che quell'unica dimora può aver dato origine a tutti i racconti di fantasmi e di assassini che sono stati scritti. A Genova ci sono alcuni orrendi, vetusti palazzi, uno in particolare non dissimile a questo, almeno di fuori; ma qui, in questa locanda di Radicofani, c'e un tale frusciar di vento, un cigolio continuo, un brulichio, un crepitio, un aprirsi di porte, uno scalpiccio per le scale, quale non ho udito in alcun altro posto. La cittadina, così com'è, sovrasta la casa dal fianco della collina di fronte. Quelli del posto sono tutti mendicanti e non appena scorgono una carrozza che s'avvicina, gli calano attorno come uccelli da preda……. fu un sollievo sortirne e attraversare la pur squallida frontiera pontificia." (Charles Dickens, febbraio 1846).

Ultreya
Monica D'Atti

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