Giuseppe S. - Sulle orme di
chi ci ha preceduto
Tutti i giorni mi porto la fotocopia
della descrizione della tappa presa dalla guida di Monica. Non sono l’unico, la guida è precisa e non ci
sono problemi a trovare la direzione, tranne casi eccezionali.
Passiamo per boschi e campi fino a scendere su uno sterrato ad una radura con una bella cappellina. Attorno panchine
per la sosta, su qualche pianta i segni del passaggio delle guardie svizzere. Stiamo trovando anche degli altri
cartelli indicatori che segnalano il percorso della Via Francigena. In questa zona sono frequenti e significa che
si è colta l’importanza della Via e la si vuole valorizzare. Per i pellegrini è una buona cosa.
La cappella è dedicata alla Madonna, la tovaglia sull’altare è ricamata con una scritta in tedesco.
Elena ce la traduce: e’ una invocazione alla Madonna.
Riprendiamo salendo ancora nel bosco. In basso scorre un torrentello, e scendiamo per un sentierino ripido ad attraversarlo.
Alla deviazione Luciano fa un gran lavoro di segnalazione sulle piante, qui è facile tirare diritto e perdere
la deviazione. Guadare il torrentello è sempre piacevole. Non succede spesso nella vita, fa tanto Camel
Trophy.
Risaliamo immaginando il sentiero, tra erbe alte nel sottobosco. Qualche esitazione, ma la direzione è giusta,
siamo alle spalle di alcuni villini. Usciamo dal fosso e sbuchiamo in un uliveto, oltre le piante si scorge il
lago di Bolsena, adesso il percorso è aperto. Siamo su uno sterrato che sale chissà da dove, a servire
un po’ di casette e di poderi alti sul lago.
Ci sono anche dei tabelloni esplicativi della Francigena. Ci informano che questo è il tracciato della antica
Cassia consolare. La prima, la più vecchia, quella fatta dai Romani. Provo un po’ di emozione quando arriviamo
a calpestare i primi tratti di basolato. Abbiamo saltato a ritroso venti secoli. Siamo romani che continuano a
calpestare il selciato originale di una delle loro mitiche vie di comunicazione. Da qui per secoli sono passate
innumerevoli persone, e con esse i loro sentimenti, di pace e di guerra, di amore e di odio. Gli eserciti romani
che partivano e tornavano. Quelli che venivano ad invadere e ad uccidere, ma anche i pellegrini, i monaci, i mercanti,
gli artisti. La vita, insomma e le consolari come arterie di questo grande organismo.
Ora la via è così modesta che mi piace pensarla solo come via di pace, via di pellegrinaggio. Gli
altri sentimenti, quelli cattivi e di morte, hanno preso altre vie, purtroppo più rapide ed efficaci.
Il tratto è bello. Incontriamo qualche persona, pare che Vittorio le conosca. Così insieme a Monica
si fermano a parlarci assieme. E’ tutto attività di promozione per la Via.
(..)
Usciamo da Montefiascone e ci ritroviamo nuovamente nei campi, fa caldo. Ritroviamo il basolato. In questo tratto
si stende per un tratto bello lungo. Grosse pietre spianate, ben sistemate una vicina all’altra, a fare un piano
ininterrotto su cui è bello camminare. Ci diciamo sopra il rosario che terminiamo ad una bella edicola della
Madonna.
La strada è polverosa assolata e non finisce più. Neanche una pianta. Comincio a sentire la fatica.
Finalmente cominciamo a scendere dall’altra parte e troviamo una fonte. L’acqua però ha uno strano sapore,
nessuno si fida a berla, proseguiamo fino ad incrociare l’asfalto e lo attraversiamo. Di là la stradina
prosegue e c’è un filare di alberi. Decidiamo di fermarci ad aspettare gli altri e a mangiare. Vittorio,
Michele e Giovanni tirano dritto. L’ombra è solo un desiderio, l’afa è talmente forte che non c’è
differenza tra ombra e sole. E poi c’è in giro una polvere tremenda. La solleviamo camminando e la sollevano
a nuvole le poche macchine che incrociamo. Così con Federico, Innocente e Ugo decido di ripartire subito.
Troviamo subito un’altra fontana, anche lei calda e dal sapore di zolfo. Per qualche chilometro procediamo così,
io davanti, gli altri tre a qualche centinaio di metri. Sto attento alla cartina, su ancora per campi, e poi giù.
Sto facendo fatica, caldo e sole a picco. Alle fontane mi sono riempito il cappello di acqua, ma serve a poco perché
asciuga subito.
La strada si allarga, sembra un parcheggio con auto e camper. Spero in una fontanella, invece c’è una vasca
all’aperto di acqua termale con delle persone che stanno facendo il bagno. Una scena da girone dantesco. Caldo
estremo e questa gente a bagnarsi nell’acqua calda. Ritrovo Vittorio e gli altri, hanno fatto il bagno e stanno
ripartendo. Anche Ugo si ferma a fare il bagno. Ugo è “il nonno” del gruppo. Per età e saggezza,
già in vista degli ottanta. Bel narratore, esperto di bicicletta e di funghi, esperto di vita. Cammina con
costanza, ha accusato qualche vescica ma non si arrende mai. Sempre cortese e attento a non apparire di peso per
nessuno. Adesso si mette anche a fare il bagno nella vasca termale sotto questo sole.
Riprendiamo lungo la strada accecante, io e Giovanni. Gli altri restano più staccati. Questa mattina, alla
Cappella dalla tovaglia in tedesco, ho trovato un bastone, brutto bitorzoluto stortissimo. Adesso mi aiuta a marcare
il passo. Una pestata di bastone ogni quattro passi. Un due tre bastone, un due tre bastone. La mente va via, anche
le gambe non le sento più, mi spinge avanti il ritmo. Vado avanti così a lungo, un due tre bastone.
La strada è un nastro bianco, abbaglia come un nevaio, tengo gli occhi bassi a terra sotto l’aletta del
cappello.
La strada gira secca a sinistra, la direzione finalmente è quella di Viterbo. Mi sembra si scorgerla controluce
sulle pendici della collina davanti, forse è un miraggio. Saranno ormai pochi chilometri.
Siamo sempre io e Giovanni, in silenzio, poche parole ogni tanto. Ogni tanto anche una sosta per tirar fuori l’acqua.
Lui cammina leggero, sembra che non appoggi neanche i piedi per terra. Finalmente la prima casa, un edificio che
sembra un istituto scolastico. Poi passiamo sotto una superstrada, il tunnel ci regala un po’ di ombra, e poi il
cimitero. Siamo alle porte di Viterbo, finalmente.
Troviamo un grande piazzale deserto, silenzioso e assolato. Scorgiamo gli ombrelloni colorati di un bar, c’è
davvero, prego che non sia chiuso. (..)
Il ritorno alla vita è rapido e gioioso, seduto fuori sotto gli ombrelloni. Uno alla volta arrivano tutti
gli altri. Ci facciamo vedere e alla fine ci ritroviamo tutti al bar. Ci vuole un’ora buona perché arrivi
anche l’ultimo.
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